voglio raccontarvi una storia. direte "che novità!", ma questa è una storia diversa, è una storia vera. una storia che parlerà di un sentimento che forse esiste, forse no. sto parlando dell'empatia.
lo scenario:
ok. io vivo in una città piccola siamo 60000 anime, circa, per quelli che l'anima ce l'hanno ancora e a queste 60000 bisogna chirurgicamente sezionare gli abitanti della città alta (storica) dalla città bassa (commerciale e industriale). ah per la cronaca io abito nella città bassa, e non voglio fare campanilismi. non è la sede adatta.
dicevo. quando hai quattordici anni e non hai un motorino l'unica cosa che puoi fare per muoverti è o diventare un maratoneta e muoverti by yourself o prendere l'autobus che ti porta sopra, in collina, per fare una camminata lungo il corso (le cosidette "vasche").
ebbene quel giorno, guardacaso, lasciai perdere la maratona e presi l'autobus per salire. c'era (e c'è ancora, e mi ha fatto specie rientrare in quel posto dopo nove anni e trovare gli stessi proprietari, UGUALI, tranne la ragazzina che io chiamavo "trilly" e che ora non è più ragazzina, molto carina, direi) un bar, al centro di una piazzetta, di cui non posso dirvi il nome, ma mi limiterò a dire che questo posticino:
- è diventato un bar di moda (e sono contento)
- è situato davanti al liceo classico e affianco ci sono i portici e la camera di commercio, e dietro i templi romani. chi è del posto avrà capito.
ma non è questo il punto. il punto è che ci si ritrovava per prendere un caffè o se eri più spavaldo una birra perché sì, "avevi quattordici anni". quel giorno non volevamo dimostrare nulla a nessuno, e perciò optammo per il caffè. ad un certo punto ci accorgemmo che un tizio, si era rivolto a noi dicendo che avevamo l'età di suo figlio, e che suo figlio stava male. lo ignorammo, quasi, si sa cos'è la diffidenza (che è una brutta bestia, e purtroppo lo ignorai pure io, mi vergogno a dirlo, tuttavia mi incuriosì), ma quando, dopo cinque minuti si avvicinò e ci offrì tutto quello che era sul tavolo perché lo avevamo ascoltato decidemmo di starlo a sentire.
un reietto. un rifiuto, secondo la società, almeno. era alto, un armadio, barba sfatta e mascella definita, se non sbaglio aveva anche il suo nome tatuato, ed indossava una maglietta a maniche corte, e un paio di pantaloni, bianchi entrambi. alcolizzato, da quello che ci diceva, e lui si girava i bar della città alla ricerca ogni volta del suo "nettare vitale". una storia abbastanza triste, se contate che era caduto in depressione da quando suo figlio stava male. ancora più triste, se pensavate al paragone con una sorta di fantasma condannato fino alla fine a subire.
ora, io ero amico di altra gente rispetto ad ora, ma la cosa che mi colpì, fu la predizione che mi diede...mi guardò negli occhi e disse "tu, un giorno scriverai, e la gente leggerà, e io, mi ricorderò di te quando leggerò il tuo nome". io volevo fare il giornalista, o comunque scrivere, e lui me lo aveva predetto. fu un momento di grande empatia, alla quale credo, anche se alcuni la reputano una boiata pazzesca.
vi rendete conto? questo tizio che conoscevo da venti minuti mi aveva già capito e gente che conoscevo da una vita (relativamente, che "vita" è una vita lunga quattordici anni? troppo acerba per definirla vita) stentava ad inquadrarmi.
ora, sono passati nove fottutissimi anni e questa frase me la ricordo come se ce l'avessi davanti, nico, ché così si chiamava. io non so chi era, nico, non lo vidi più se non un'altra volta, e io lo chiamai e lui mi riconobbe. in nove anni, una volta sola. mi piacerebbe sapere che fa, e magari mi piace pensare, che, forse, lui stia leggendo queste pagine e stia dicendo "avevo ragione". magari suo figlio sta bene ora. magari lui non beve più. magari si ricorda ancora. mi piace pensare tutto questo, perché questa è una storia vera.
(questa storia è venuta fuori l'altro giorno parlando con michele_d, che mi ha ricordato di quando gli raccontai quel fatto. grazie, michè.)